Quando la nostra città era chiamata Petilia Corral

Quando la nostra città era chiamata Petilia Corral

Pubblichiamo, insieme all’ articolo di Panorama del febbraio 1987, in cui la nostra Città veniva definita «Petilia Corral» a causa del dilagante fenomeno criminoso, una nostra intervista all’allora Sindaco, dott. Salvatore Romano.Vogliamo così ritornare a una delle pagine più tristi della nostra Città, legandola ai ricordi e alle considerazioni attuali di chi, come l’ex sindaco Romano, insieme a pochi altri, pagò in prima persona e sulla sua pelle l’impegno a non rassegnarsi di fronte al fenomeno criminale dilagante a Petilia.

Ci accoglie sulla soglia di casa sua con un sincero sorriso.
L’ex-Sindaco Salvatore Romano è un signore distinto di mezza età, che ci mette immediatamente a nostro agio, rendendosi disponibile in modo naturale a rispondere alle nostre domande.
La nostra intervista diventa così occasione per una piacevole e lunga chiacchierata tra passato e presente, in cui i ricordi si mescolano a considerazioni profonde e appassionate sulla situazione presente della nostra Città. Di seguito pubblichiamo alcune delle nostre domande con le relative risposte che l’ex-Sindaco ci ha gentilmente rilasciato.
Sindaco Romano, come ricorda, a distanza di quasi trent’anni dai fatti, quella stagione triste e violenta della nostra Città che ha caratterizzato il suo breve ma significativo mandato come Primo Cittadino di Petilia?
Ricordo che all’epoca in cui ho svolto il mio mandato di sindaco (dalla fine del 1985 al settembre del 1987), a Petilia si era venuto a radicare un fenomeno delinquenziale molto forte. Diversi, in quel periodo, furono i fatti criminosi che costellarono la vita della nostra Città. Oltre a quelli che riguardarono direttamente la mia persona e la mia famiglia (incendio di una casa e di due macchine), non posso dimenticare un episodio tristemente emblematico: la completa distruzione dei lampioni pubblici di Petilia, avvenuta nella notte del capodanno 1987. Con questo gesto, in modo plateale, la criminalità organizzata aveva voluto affermare il totale controllo del territorio della nostra città.
Come si arrivò a questa escalation di violenza?
All’epoca quella che si manifestava a Petilia non era ancora, a mio parere, una realtà che coincideva con un fenomeno mafioso vero e proprio: si trattava per lo più di delinquenza organizzata a livello locale. Quello che ricordo, in particolare, è che una delle attività che dava a questi delinquenti più visibilità, oltre al racket delle estorsioni nei confronti dei piccoli commercianti del nostro comune (quello che in gergo popolare si definisce “a mazzetta”), era il monopolio del commercio dell’uva. Si trattava comunque di un fenomeno che era destinato ad evolversi in forme più complesse ed organizzate e le cui nefaste conseguenze non tardarono a rivelarsi, fino ad assumere, negli anni successivi, i tratti di un’organizzazione mafiosa vera e propria.
Lei, come sindaco, come si trovò a fronteggiare questo fenomeno?
Io ero sindaco da poco più di un anno quando diversi gravi episodi criminosi, come quello già citato della distruzione dei lampioni pubblici, e uno in particolare che riguardò direttamente la mia persona, in un certo senso, mi obbligarono ad assumere scelte ferme e decise nei confronti della prepotenza e della illegalità ostentata da parte di quelli che allora in paese venivano ancora semplicemente definiti come delle “sciabole”.
Può dirci qualcosa di più preciso su questo episodio criminoso di cui fu vittima in prima persona?
Non mi è mai piaciuta la definizione che mi affibbiarono di sindaco-sceriffo. Mi ritrovai, comunque, a dover prendere atto che la situazione a Petilia non mi permetteva, come sindaco, di sorvolare su questi episodi criminosi, per cui mi ritrovai a prendere di petto la situazione e a non indietreggiare nei confronti di diverse intimidazioni di cui fui fatto oggetto. Mi sentivo solo, ma allo stesso tempo sapevo che dovevo fare qualcosa. Allora decisi di chiedere aiuto attraverso la stampa; fui così contattato da un giornalista del Corriere della Sera al quale descrissi la situazione tragica e drammatica che si viveva a Petilia; l’intervista venne pubblicata addirittura in quinta pagina del quotidiano nazionale. Dopo la visibilità ottenuta sul Corriere, una corrispondente del Wall Street Journal, che doveva scrivere un pezzo sul Mezzogiorno d’Italia, venuta a conoscenza della mia storia, decise di descrivere la situazione di Petilia Policastro. Dopo l’uscita del pezzo sul giornale americano si scatenò anche il resto della stampa nazionale, fino a quando anche il settimanale Panorama volle conoscere la situazione da vicino e arrivò a Petilia per intervistarmi. Io mi ero rivolto alla stampa solo per chiedere aiuto, ma quando si dice la verità non si è mai ben visti ed è così che arrivai a vivere situazioni pericolose per me e soprattutto per la mia famiglia. Per cercare di fermare il mio impegno di legalità, infatti, incendiarono la mia casa e una macchina a me e una a mio fratello. L’episodio più impressionante, comunque, al quale dovetti assistere fu, una mattina, il ritrovamento in piazza Filottete di un asino legato ad un albero e al quale avevano sparato un colpo in testa. Era un chiaro segnale rivolto alla mia persona: volevano farmi capire che dovevo smetterla.
Lei dopo poco più di due anni dal suo insediamento come sindaco di Petilia si dimise. Può dirci come arrivò a questa che, crediamo, fu per lei una decisione molto sofferta? Sindaco, ci dica la verità: i motivi che la spinsero a dimettersi furono maggiormente quelli legati alla situazione della criminalità petilina o furono ragioni legati anche alla realtà politica del tempo?
Io di carattere sono sempre stato uno che non molla facilmente. Ritrovarmi a fronteggiare, come sindaco, il fenomeno criminoso a Petilia fu per me un dovere che vissi con consapevolezza e decisione. Di certo però la situazione politica del tempo non facilitò il mio compito. Basti pensare che ad un Consiglio Comunale, che indissi in forma straordinaria per trattare il fenomeno criminoso a Petilia, di fronte alla partecipazione massiccia delle rappresentanze politiche e istituzionali del comprensorio si registrò la presenza di un esiguo numero di consiglieri comunali petilini. Il passo verso le mie dimissioni fu breve e – oggi direi – del tutto obbligato.

Oggi, a quasi trent’anni dai fatti, cosa si sentirebbe di dire ad un giovane che volesse scommettere la sua vita restando nella nostra città?
Realisticamente credo che per un giovane, oggi come ieri, sia molto difficile rimanere a Petilia che fa difficoltà ad offrire speranze serie e concrete. Ripensando però ai miei anni giovanili ritengo che sia possibile, cercando però soprattutto di mettere insieme le forze più oneste e valide che pur esistono all’interno del nostro territorio. Una preziosa risorsa da riscoprire urgentemente a Petilia mi sembra debba essere la Politica, intesa come il perseguimento disinteressato del bene comune, che escluda la ricerca delle soluzioni dei problemi da ogni riferimento personalistico. Bisognerebbe riscoprire il confronto delle idee e sulle idee che si sostituisca al troppo ricorrente scontro personale, che impedisce l’autentico sviluppo del nostro territorio. L’importante dovrebbe essere per i giovani ritrovarsi, a partire dalle risorse naturali di cui il nostro territorio è ricco, intorno alla realizzazione di un progetto serio di sviluppo. A Petilia e più in generale in Calabria occorrerebbe investire soprattutto nel turismo e nell’ambiente e di conseguenza nell’agricoltura. In definitiva, sono convinto che, se si vuole rimanere in una terra come la nostra, bisogna essere capaci di unire la valorizzazione di queste risorse ad una dose non indifferente di coraggio.

Giuseppe Frandina

Giuseppe